Il dipinto raffigura il Cristo morto tra due angeli che mostrano i simboli della Passione, quello di destra i chiodi, quello a sinistra la corona di spine e i flagelli. Alle spalle del gruppo la croce costituisce il centro ideale e simmetrico per la lancia, il velo della Veronica, la scala, la colonna, il gallo, l’asta con la spugna imbevuta d’aceto. In primo piano a terra altri oggetti rimandano alla Passione: la tunica, i dadi, il martello, il sacchetto con i trenta denari, la brocca, la bacinella e l’asciugamano di Pilato. L’immagine, con chiara evidenza didattica, si rivolge ai fedeli invitandoli a meditare sul sacrificio del Cristo e sulle sofferenze da lui patite per amore dell’umanità, utilizzando un tono di forte accentuazione patetica, secondo le indicazioni proprie della cultura religiosa controriformistica. L’opera presenta la medesima iconografia di un affresco conservato nella chiesa di S.Domenico a Pistoia realizzato nel 1573 dal pittore veronese ma pistoiese d’adozione Sebastiano Vini (E. Panella, La ‘Pietà’ di Sebastiano Vini, in “Memorie Domenicane” 1976, pp.359 – 365) per la sepoltura di Maria de Solis, moglie dei capitani della Fortezza di Pistoia Ottaviano Piccardini.
L’affresco pistoiese, oggi purtroppo quasi illeggibile per le cattive condizioni, si differenzia dalla tavola di Serravalle per la forma centinaia, alla quale si devono le poche varianti legate al minore spazio a disposizione. All’ambito dei Vini può essere riferita anche la nostra tavola, non solo per l’identità dei soggetti, ma anche per i caratteri stilistici e per la conduzione pittorica, caratterizzata da una pennellata stringata che in alcune parti fa pensare ad incompiutezza, elemento che si rintraccia anche in altre opere uscite dalla bottega dei maestri. La presenza di Sebastiano Vini e di artisti operanti nel suo ambito, come il figlio Jacopo, è del resto documentato, seppur non per l’opera in oggetto, presso la chiesa di S. Stefano in diverse occasioni, tra il 1564 e il 1567 e nuovamente circa venti anni dopo, tra il 1586 e il 1589, attestando un rapporto costante e di fiducia tra l’Opera e il pittore. Non sappiamo quale fosse la collocazione originaria della tavola, forse proveniente da una delle Compagnie, che prima di approdare all’ultima sistemazione (in alto a fianco dell’organo), si trovò per alcuni anni all’altare maggiore, dove è documentata ai primi dei ‘900.